Export italiano: qualità alta, sale il costo del lavoro

Le imprese italiane hanno dimostrato di saper tenere il passo di quelle tedesche sui mercati esteri: negli ultimi quattro anni l’export è cresciuto del 3%, contro il 3,5% della Germania. Ed è un export di valore: dal 2000 la qualità dei prodotti, misurata come rapporto tra valori medi unitari e prezzi alla produzione del venduto all’estero, è aumentata del 25% cumulato (+1,6% medio annuo, contro lo 0,9% tedesco, lo 0,5% francese e lo 0,4% spagnolo). Ma la competività dell’Italia ha risentito del forte aumento del costo del lavoro per unità di prodotto: +3% l’anno rispetto al -0,1% della Germania. I dati arrivano dalla nota del Centro studi di Confindustria sull’export italiano. La premessa del Csc è una: tutti i Paesi avanzati tendono a perdere fisiologicamente porzioni di commercio internazionale a causa dell’avanzata di quelli emergenti. Così è stato anche per l’Italia: la quota del nostro export rispetto a quello mondiale dal 2000 al 2014 si è ridotta dello 0,9 per cento. Ma, confrontando la performance italiana con quella di un gruppo significativo di Paesi avanzati (i G-10 più la Spagna), si nota come la posizione delle nostre imprese si sia in realtà consolidata: +0,6% in 14 anni, in controtendenza rispetto alla Francia (1,1%), al Regno Unito (-1,5%) e al Giappone (-3,8%). Soltanto la Germania e la Spagna hanno fatto meglio (rispettivamente +4,5% e +1,2%), ma Madrid partiva da una posizione più arretrata rispetto alla nostra. Dal 2010, in particolare, l’export italiano è cresciuto a prezzi costanti in linea con quello tedesco. Ma forse il segno distintivo più importante del “made in Italy” è la qualità dei prodotti, ricavata dal rapporto tra i valori medi unitari dell’export e i prezzi alla produzione dei beni destinati ai mercati esteri. La qualità dell’export italiana cresce molto più degli altri principali Paesi europei: l’indice italiano è salito dell’1,6% medio annuo a partire dal 2000 (25% cumulato) contro il +0,9% tedesco, il +0,5% francese e il +0,4% spagnolo. Una qualità, quella italiana, aumentata nella maggior parte dei settori, in particolare negli articoli in pelle e calzature, nella chimica e farmaceutica, nei macchinari e apparecchiature. E questo valore aggiunto, secondo il Cdc, ha contribuito per lo 0,27% medio annuo alla crescita dell’export. Fin qui le luci. Ma le ombre – due in particolare – pesano sulla competività italiana. Il primo è l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto: +3% medio annuo dal 2000 al 2014 (+1,2% quello spagnolo, -0,1% quello tedesco). L’incremento complessivo è pari al 36,7% fino al 2013 (+42,5% fino al 2014) con un gap molto ampio rispetto a Spagna, Francia e Germania. Nonostante questo aumento, le imprese hanno mantenuto competitivi i prezzi riducendo i margini di profitto (il Mol manifatturiero è calato del 13,2%). «L’erosione dei margini – si legge nella nota del Cdc – non è sostenibile nel lungo periodo e quindi costituisce un fattore di debolezza del manifatturiero italiano, perché penalizza la capacità di investimento». Quantificando, per il Centro studi la perdita di competività dovuta al costo del lavoro dall’inizio del 2000 ha causato una minore crescita dell’export di 0,95 punti percentuali medi annui. Alla contrazione degli investimenti è invece attribuibile un mancato aumento dell’export di 0,06 punti medi annui. (fonte: Il Sole 24 Ore)

 

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