Tolta l’elettronica, probabile “maglia nera” del 2014, respirano un po’ tutti i settori industriali, che hanno allargato i ricavi esteri su buona parte dei mercati, dagli Stati Uniti al Regno Unito, passando per Spagna, Cina e Corea del Sud. Da qui gli spiragli di fiducia, incoraggiati da un euro, finalmente, un po’ più debole, evidenziati nell’ultimo Rapporto Analisi sui settori industriali realizzato da Intesa Sanpaolo e l’associazione Prometeia. Nell’elenco dei “campioni” nostrani all’estero, non si trovano solo brand globali o del lusso. La meccanica la fa da padrone: il valore annuo delle sue esportazioni supera i 72 miliardi. In questi anni, ad esempio, uno degli Oscar dell’export è andato di diritto alla milanese
Geico, guidata da Ali Reza Arabnia, leader mondiale negli impianti per verniciatura auto, che poche settimane fa ha portato a casa una commessa milionaria legata al maxi impianto sudamericano di Mercedes Benz. Ma nella sua carriera ha già dipinto scocche per quasi tutte le case mondiali, da Fiat fino agli stabilimenti Audi di Ingolstadt. Oggi l’azienda esporta oltre il 95% e ha raggiunto nel 2013 un fatturato di 130 milioni (+34%). Livelli di vendite simili a quelli ottenuti, ad esempio, da Brevini, storica azienda reggiana di riduttori che ha oltre mille dipendenti nelle sue sedi estere, e Vin Service, che costruisce in tutto il mondo impianti di spillatura per birra, vino e acqua. Non a caso, nel prossimo biennio, secondo lo studio di Intesa, l’export della nostra manifattura crescerà a un tasso del 3,6%, portando il surplus commerciale del settore a oltre cento miliardi. A dare una mano la ripresa delle economie avanzate, con in testa gli Usa. Mercati “classici” su cui gli imprenditori italiani riescono a competere con più agilità rispetto ai concorrenti. Non tutti però se la passano allo stesso modo: tra i settori più dinamici all’estero nei prossimi due anni soprattutto elettrotecnica (+4,2%), meccanica (+3,7%), auto (+4,8%) e i marchi alimentari di largo consumo (+3,9%). Anche le griffe del “Made in Italy” più
tradizionale, legati a prodotti di fascia medio alta, rialzeranno la testa, interrompendo la striscia negativa. In cima il sistema moda, che nel 2014 venderà oltre confine capi di abbigliamento per più di 45 miliardi, seguito da mobili e prodotti in ceramica. Fanalino di coda, come accade da tempo, le aziende legate ai materiali per le costruzioni, poco aperte al commercio con l’estero e “zavorrate” dalla paralisi dell’edilizia italiana. Nonostante il peso, e in molti casi gli utili, di big internazionali come Ferrari, Prada, Benetton e Barilla in questi anni siano rimasti quasi intatti, è nel “sottobosco” della manifattura che l’Italia sta gettando le basi per il suo rilancio industriale. Il centro studi di Mediobanca ha messo in fila le new entry più interessanti sul fronte dell’export. Aziende italiane che nell’ultimo bilancio hanno registrato un boom di vendite oltre il 20% sia rispetto al periodo pre-crisi (2007) che nel confronto con due anni fa. A unirle è la vocazione verso l’estero, vissuta quasi come una missione. Tra le più dinamiche c’è la mantovana Ballarini, fondata nel 1925, specializzata nella fabbricazione di pentolame e attrezzi da cucina in metallo. Un comparto tradizionale che non le ha impedito di raddoppiare in un anno il fatturato (da 59 a 92 milioni), piazzando all’estero il 61% dei suoi prodotti. Con percentuali di export superiori all’80% si fanno spazio la veneta Uteco Converting (macchine da stampa), la Chimec, nata a Roma come marchio di antidetonanti, e la maison del lusso Stefano Ricci, che vende la sua sartoria maschile fino in Cina e, grazie all’impennata di ordinativi, da poco ha investito 10 milioni per allargare i suoi stabilimenti. A volte si saldano assieme diversi settori del “Made in Italy”: Euroitalia, ad esempio, crea fragranze e cosmetici per i marchi di moda, mentre vende all’estero quasi tutta la sua produzione Fosber (export al 96%), che a Lucca produce macchine per l’industria della carta (in Italia quasi sparita). Ma il settore capofila oltre confine, che mischia tradizione
meccanica e high tech, è forse il packaging: dalla “valley” bolognese – con i colossi Ima, Marchesini, Gd e Sacmi – fino agli exploit più recenti. La Smigroup di Paolo Nava è un marchio bergamasco di impianti per il confezionamento di alimenti e bevande. L’anno scorso per la prima volta ha portato le sue esportazioni al 66%, raddoppiando gli utili, mentre Stevanato Group, che a Padova realizza packaging in vetro per l’industria farmaceutica, su 241 milioni di ricavi (+20%) realizza fuori dall’Italia ormai nove vendite su dieci. Tanto da aver aperto negli ultimi anni, sotto la guida di Sergio Stevanato, due nuovi stabilimenti in Messico e Cina per seguire da vicino i mercati asiatici. E per riuscirci ha messo sul piatto oltre 60 milioni di investimenti. Ci sono aziende italiane che nell’ultimo bilancio hanno registrato un boom di vendite oltre il 20% sia rispetto al periodo pre-crisi (2007) che nel confronto con due anni fa. (fonte: laRepubblica.it)